L’ospite senza nome – Raffaele Russo

22 Nov 2024 | Ricevuta di ritorno

Non può essere. Non deve essere.

Era proprio la sua voce.

Non ci credo.

Mi giro. È un attimo. È lui.

Non mi ha vista.

Non è da solo. Cosa ci fa con uno sbirro? Qui a Milano. Così lontano da casa, anche lui. Porco diavolo, proprio qui doveva venire?

Mi tremano le ginocchia. Non deve vedermi. Non così.

Riesco a nascondermi nella cucina.

Tutt’intorno voci, grida, canzoni. È stato un giorno di festa, alla nostra osteria. Un buco, a dire il vero. Male illuminato, non lontano dalla piazza dove oggi sono tutti impazziti.

Giusto due lumi a mano, attaccati a una trave. Una tavola lunga, due panche. Tanta gente, però. Tutti allegri, trionfanti.

Oggi hanno assaltato i forni. Il pane costa caro, qui a Milano. Sempre più caro. La gente è stanca. È andata a prenderselo da sola.

Per me, hanno fatto bene.

Ma del resto. Non me ne importa niente. Io un lavoro ce l’ho, qui all’osteria.

Alla luna piena. Così si chiama. Ci ero passata davanti per caso. Sei mesi prima. Nessuno al mio paese sapeva dov’ero andata. Non devono saperlo. Mia madre, cosa direbbe? Le vicine? Non ci voglio nemmeno pensare. Molto meglio che mi credano affogata nel lago, perduta da qualche parte.

Non potevo restare.

Aveva scelto lei. Me, nemmeno mi vedeva. Non sono nemmeno sicura che si ricordasse il mio nome.

E sì, che non poteva avere dubbi, su quello che volevo da lui.

Quella sera alla festa del paese. Il ballo, gli sguardi, il vino. Chi mi avrebbe voluta, dopo quella sera.

Del resto, che importa? Nemmeno io volevo nessun altro.

E poi lui aveva scelto quella gatta morta.

E davvero, meglio morta che essere come lei. Sempre gli occhi bassi, sempre in chiesa. Cosa ci sarà poi mai, in chiesa? Da mangiare, certo non te ne danno.

Quando sono andata da lui, per fargli dire che voleva sposarmi, cosa avevo in testa? So solo che ero bellissima. Ogni altro ragazzo del paese avrebbe baciato la terra dove camminavo.

Lui non mi guardò nemmeno. Credo che nemmeno capì. Si alzò e andò da lei, come se fosse normale. Come se fosse bere per un assetato, come mangiare quando non mangi da giorni, e muori di fame, come respirare quando esci dal lago.

Lo odiavo. Lo volevo morto. Lo volevo in fondo al lago.

Lo amavo ancora, insomma.

 

E si presenta qui! Insieme al peggior sbirro di Milano. Lo avevo imparato presto, appena arrivata. Il padrone, l’oste della luna piena, quello che metteva le mani so io dove, appena la moglie non guardava. Quello che mi aveva assunta al primo sguardo, senza nemmeno chiedermi cosa sapevo fare. Lo sbirro era uno dei pochi uomini di cui il padrone avesse paura.

Maledetto oste! Con un calcio mi ha tirata in mezzo ai clienti. Mi ha detto cose non belle, che di solito mi fanno ridere.

Ma non voglio che mi veda così.

Non mi vede, però.

Tutti cantano, lui parla con lo sbirro.

 

Camerée porta ’n mezz liter


camerée porta ’n mezz liter
camerée porta ’n mezz liter,
pagherò, pagherò, pagherò.

 

Tutti con me ce l’hanno. Vogliono il vino. Cantano. Battono i pugni sul tavolo.

Lui però non mi vede. È un po’ bevuto. Come se fosse la prima volta…

 

È molto bevuto! Mi avvicino al tavolo, ma mi sa che non riconoscerebbe nemmeno sua madre, povera donna. Parla fitto fitto con lo sbirro. Poi con l’oste e con lo sbirro. Vogliono sapere il suo nome.

Lui non lo vuole dire. E meno male! Un po’ di sale in zucca allora ce l’ha. Non credevo…

Quasi quasi mi faccio avanti, e lo spiattello io.

Vado a portare il vino a un altro tavolo. Poi proprio a lui. Un fiasco di vino sincero.

Non mi vede nemmeno.

Come sempre, non mi vede.

Sto per dire allo sbirro il nome. Ma sento che l’idiota lo dice lui.

Me ne vado, rossa. Cosa ha fatto?

 

Lo so che qualcosa di brutto sta succedendo. L’oste esce. Ha una faccia! La moglie bestemmia, mi tira addosso qualcosa. Mi manda da quelli che cantano e gridano di più.

 

Gira la baracca, gira, gira,
foeura mezza lira, fuori mezza lira,
gira la baracca, gira, gira,
foeura mezza lira per pagar.

 

Uno mette le mani dove non deve. Gli dò uno schiaffo. Mi guarda. Stupito, credo.

Non vedo bene perché guardo da quell’altra parte.

Quello non vedrebbe nemmeno il viceré, nemmeno se entrasse con tutta la sua carrozza.

 

Poi in qualche modo lo mettono a letto.

Pensiero assurdo. Entro anche io. E perché poi. Lo sento fuori dalla porta. Russa da fare schifo.

Non riesco a dormire. Sono nella porta vicina, tutta la notte.

Lo sentono quando arrivano gli alabardieri. E il notaio, nero come un corvo.

Lo arrestano, lo portano via.

Stanno per portarlo via. Il corvo gli dice qualcosa. Si deve vestire. C’è un po’ di tempo.

Che faccio? Che faccio?

Come faccio a salvarlo?

 

Esco come una pazza. Non trovo nessuno. Poi trovo tutti. Tutti mi guardano. Dico che stanno arrestando uno di loro, un buono figliolo. Uno di quelli che gridava pane e giustizia!

(che frase stupido, a pensarci ora)

Voglio portarli all’osteria. Ma se mi vedono? Ci mettono un amen ad arrestarmi. Voglio farmi impiccare per lui?

Certo che voglio.

Comincio a cantare. Prima mi guardano senza capire. O forse capiscono. In ogni caso mi guardano. Mi vengono dietro. Io canto. Cantano anche loro.

 

Come farò patapin, patapon,

se non ce n’ho, patapin, patapon,

Al mio ritorno, al mio ritorno…

Come farò patapin, patapon

se non ce n’ho, patapin, patapon

 

È troppo tardi! Il corvo e gli alabardieri lo portano fuori proprio ora. Siamo ancora lontani.

Poi tutti corrono. Anche io corro. Alla disperata.

Il corvo dice qualcosa. Gli alabardieri scappano. È salvo! È salvo!

Figlio di un cane, è salvo! L’ho salvato io!

 

Tanto non lo seppe mai. Non seppe mai nemmeno che c’ero io lì, rossa, discinta, bellissima. Non sa di dovermi la vita. Se l’è sposata, poi.

È andato a vivere lontano, all’estero.

Immagino che abbia un sacco di figli.

 

Io sono ancora qui. Alla locanda.

Mi ricordo che l’oste bestemmiò per un giorno intero, per la fuga di quel bifolco.

Come si chiamava, poi? Lo sai tu, mi chiese? Non era del tuo paese?

E allora io glielo dissi. Tanto ormai che importanza aveva?

Si chiama Lorenzo Tramaglino, gli dissi.

Ma io, io l’ho sempre chiamato Renzo.